Aprile 2023





Ogni impresa ha le sue peculiarità e Il
"one size fits all" non funziona.
Ecco gli errori più comuni nell’approccio italiano al mercato a stelle e strisce





È copiosa la letteratura del marketing che elenca i modi per “conquistare” il mercato USA: come avere successo, come sviluppare un piano di export milionario, come conquistare il mercato americano… e, per dirla all’americana, “one size fits all”, una soluzione che possa andare bene per tutto e per tutti.


Ma ogni azienda ha la sua storia, il suo prodotto e di riflesso uno specifico posizionamento di mercato con relativa strategia e attività di business development.


Dal nostro osservatorio negli USA notiamo come ancora moltissime imprese siano restie ad avvalersi di un advisor presente nel mercato ma preferiscano, anzi insistano, nel percorrere la strada del “fai-da-te” sicuri di sapere come navigare in un mercato che credono di conoscere ma che di fatto ne ignorano le dinamiche e le tendenze, con il risultato di un notevole dispendio di risorse in termini di personale, budget, tempo, in attività che non generano alcun risultato perché non corrette nel metodo e nell’approccio aziendale al mercato. Infatti se vale il detto che dagli sbagli si impara, ecco una “Stop ten”, una classifica dei 10 errori più comuni che le Pmi italiane, pur con una grande potenzialità di prodotto, commettono nell’approcciare “fai-da-tè il mercato degli Stati Uniti:



LA STOP TEN:


1) Pensare che il “Made in Italy” sia l’unico elemento distintivo. Come già illustrato in dettaglio nei precedenti articoli, l’attributo Made in Italy da solo non è una leva sufficiente in assenza di almeno un elemento distintivo, innovativo del prodotto e di quella unique selling proposition che risponda come soluzione di una nuova necessità, soprattutto quando la stessa tipologia di prodotto si confronta con prodotti simili prodotti sia da imprese americane che di altri paesi.

Quante aziende fanno una reale analisi Swot mirata al mercato Usa per evidenziare punti di forza e di debolezza?


2) Aspettare che un distributore gestisca l’intero piano di export. Siamo in un mercato americano altamente dinamico, competitivo e complesso e risulta anacronistico pensare che un distributore si faccia carico della pianificazione e del budget di marketing per promuovere un prodotto quando, per contro, il distributore è interessato principalmente a capire quanto questo nuovo prodotto possa contribuire al suo ampiamento di portfolio e quanto lo stesso prodotto possa generare in termini di potenziale incremento di visibilità e di profitto.


3) Non presentarsi in maniera professionale “You never get a second chance to make a first impression.” Recita così un famoso detto di Will Roger in tema di presentazioni.

Quante aziende e quanti manager continuano a scrivere da improbabili email non aziendali?

E quanti ancora inviano senza introduzione cataloghi (anche voluminosi in termini di peso PDF che di volume se spediti ma non richiesti.

Un rappresentante multi brand di arredi, senza preavviso, ha spedito alla nostra sede di Miami un “bancalino” (come denominato nella bolla di accompagnamento) di cataloghi di ben 92 kg!!!) auspicando che qualcuno li avrebbe potuti distribuire. Senza parlare di listini prezzi inviati a prospect buyers sconosciuti, rimanendo poi basiti del perché non ricevono risposta!

Quante sono le aziende che ancora non sanno ottimizzare un listino prezzi ex works per gli Stati Uniti?





4) Investire nell’apertura di società in Usa senza alcuna gestione diretta nel mercato.

Essere presenti nel mercato Usa con una propria entità legale è segno di volontà di operare in maniera strutturata (leggi il nostro articolo pubblicato su Economy di Marzo) ma sono ancora molte le imprese che pensano di aprire una società negli Usa per poi non utilizzarla.

I dati societari sono facilmente verificabili online attraverso i vari siti dei Dipartimenti di Stato dei 50 stati Usa e sono moltissime le società che risultano registrate e inattive da tempo, alcune da anni, con i soci con indirizzo italiano e un registered agent spesso improvvisato e con indirizzi improbabili.

Quale può essere secondo voi la percezione (e torniamo alla first impression) di un buyer/partner americano che per prima cosa fa una verifica di questo tipo?


5) Non avere una immagine aziendale coordinata per il mercato Usa.

L’immagine è importante. Il sito web è il primo e spesso unico biglietto da visita dell’azienda ma molti siti di imprese che aspirano ad esportare in Usa sono con una macaronica lingua inglese tradotta con app di traduzione, lenti da aprire, con immagini di prodotto pesanti e schede tecniche prive di specifiche, con utilizzo di font e di impaginazione mai aggiornati perchè non si è mai avvertita la necessità di rinfrescare l’immagine con una veste stilistica considerando secondario il sito web come strumento di business. Anacronistico in una era dove la digitalizzazione è oggi uno degli strumenti di crescita.


6) Non definire un budget per supportare azioni di marketing mirate “There's no free lunch in New York” è un altro detto qui in America a significare che non vi è nulla di gratuito e ogni servizio deve essere pagato.

Le attività di marketing, che sono alla base del posizionamento di prodotto in un nuovo mercato, devono essere pianificate e messe a budget per essere svolte in maniera efficace e costruttiva ai fini di una crescita organica e sistematica.

Una PMI americana investe mediamente il 10% del fatturato, ogni anno, in attività di Marketing per comunicare e sostenere il posizionamento del proprio prodotto.

Quanto ha investito la vostra azienda nel 2022? Quale budget e' stato dedicato per il 2023?


7) Non avere un packaging regolamentato e funzionale per il mercato Usa.

Il packaging a norma di mercato e in lingua inglese è un must così come la creatività del packaging di prodotto deve stimolare il consumatore e ancor prima il distributore a considerare il prodotto.

Un packaging non lo si definisce una volta che il prodotto è stato approvato ma lo si definisce proprio per agevolare l’approvazione del prodotto nel mercato Usa.


8) Non conoscere i reali competitors presenti nel mercato (e non quelli immaginari).

Per entrare nel mercato Usa la prima cosa è conoscere la propria industria negli Stati Uniti attraverso una analisi di market competitive intelligence che tra i vari aspetti illustri chi sono i reali competitors (nazionali e internazionali) come operano, con quale politica di prezzo, con quali attività di marketing e di comunicazione e in quali canali di business.

Ancora oggi piccoli produttori considerano come competitors diretti i grandi brands di settore senza pensare che le dimensioni, in assenza di budget e di visione strategica, non si sviluppano da sole e, soprattutto, non si compete negli stessi canali.

Quali sono realmente i canali di business più funzionali per distinguervi nella competizione?


9) Cedere ai luoghi comuni che fanno pensare di conoscere il consumatore americano

Gli Usa sono un grande singolo mercato unico, il principale consumer market globale, dove ogni mese si spende per l’equivalente di un terzo del PIL annuale dell’Italia, e il primo mercato del lusso al mondo, ma è banale pensare che il consumatore americano non sia “discerning”, perspicace, e attento nelle sue scelte e parliamo di un consumatore di un mercato che spazia attraverso 6 fusi orari tra la costa Est e le Hawaii e quindi con demografiche di utente e di acquisto e capacità di spesa che devono essere attentamente studiate per ottimizzare quella che qui negli Usa viene chiamata la catching area.


10) Partecipare a fiere in Usa senza preparazione sprecando così una opportunità e tanto denaro.

L’investimento nella partecipazione ad un trade show può rappresentare una significativa percentuale del budget di marketing, spesso per molte piccolo imprese risulta essere anche l’unica attività svolta.

Ma, ci duole constatare, sono moltissime le imprese, non solo piccole ma anche di medie dimensioni, che sprecano letteralmente questa opportunità pensandola solo come ad uno stand da presidiare e basta.

Quale sia la finalità di tale assenza di visione mi risulta tuttora inspiegabile.

Il concetto di fiera si è evoluto! Non basta lo stand.

Ci vuole promozione prima e dopo. (leggi il nostro servizio 10X TRADE)

Networking, pubbliche relazioni.

E soprattutto condividendo contenuti, partecipando a panel invitati come speaker, creando momenti di get-together. Insomma rendendo la fiera un evento dove essere attivi e percepiti come attivi per risultare interessanti.


Sotto i ponti di Manhattan e di Miami di acqua ne è passata veramente tanta, così come tante sono le PMI italiane che, nonostante un potenziale di prodotto, hanno purtroppo decretato lo stop al loro market entry nel mercato che non solo rappresenta la più grande economia del mondo ma che permette ancora di realizzare l’American Dream, il sogno americano, e di sognare di diventare grandi brand.